Secondo la Cassazione penale le vessazioni psicologiche ai dipendenti possono essere considerate violenza privata ex art. 610 c.p..
Il caso riguarda la condanna di un datore di lavoro per avere, in numerose occasioni e in tempi diversi, sottoposto a vessazioni psicologiche i propri dipendenti, ledendo la loro integrità morale e il loro decoro con offese, minacce, ritorsioni e accuse ingiuste. In primo grado il datore di lavoro, originariamente imputato di maltrattamenti ex art. 572 c.p., era stato condannato per atti persecutori ex art. 612-bis dopo che il Tribunale aveva riqualificato la sua condotta; successivamente la Corte d’Appello aveva ulteriormente riqualificato i fatti emersi in giudizio condannandolo per violenza privata ex art. 610 c.p.
Il datore di lavoro ha proposto ricorso per cassazione lamentando, fra l’altro, che il delitto di violenza privata richiede un evento ulteriore rispetto alla condotta violenta e minatoria (cfr. art. 610, primo comma c.p.: “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”): elemento ulteriore che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente individuato nella costrizione a tollerare un ambiente lavorativo ostile mentre, in realtà, l’ambiente ostile si sarebbe sviluppato come conseguenza indesiderata della condotta.
La V Sezione della Cassazione penale, con sentenza n. 4567 del 1 febbraio 2024, ha rigettato il ricorso affermando che: «La questione di diritto proposta all’esame di questa Corte si traduce, pertanto, nella valutazione se, nel caso di specie così come ricostruito dall’ordinanza impugnata, sia ravvisabile la costrizione a tollerare ““qualcosa” di diverso” dai fatti di violenza o minaccia contestati. La Corte di appello ha individuato correttamente la coartazione psicologica come azione adeguata a “indurre le persone offese a tollerare atteggiamenti e comportamenti altamente lesivi della loro libertà morale”, nonché ritenute sussistenti le “che costringevano le dipendenti a tollerare un clima lavorativo oltremodo ostile ed insidioso nonché a scoraggiarle, anche mediante la messa in atto di meccanismi ritorsivi, dall’intraprendere qualsivoglia tipo di iniziativa in grado di contrastare la sua condotta”. In sostanza la Corte di appello individua un quid pluris, oltre la minaccia e la violenza in sé, consistente nel condizionamento pro-futuro delle azioni delle persone offese, soggiogandole così da costringerle a “una condotta meramente omissiva, funzionale all’esercizio di un controllo sulla libertà psichica delle vittime e ad evitare qualsivoglia elemento di contrasto all’imposizione della sua (dell’imputato) volontà”».