Intervista al dott. Francesco Biggi, ortopedico CDI
L’anca è, storicamente, una delle articolazioni più studiate per l’incidenza di patologie, siano esse congenite (diplasia), degenerative (coxartrosi), post-traumatiche (fratture del collo femorale), dismetaboliche(necrosi della testa femorale). Il grande incremento, poi, della pratica sportiva, sia essa agonistica che ricreazionale, accompagnato da una diagnostica sempre più raffinata (TC, RNM), ha portato alla definizione di nuovi quadri clinici (conflitto femoro/acetabolare, condropatie, tendinopatie), quasi sempre appannaggio di una popolazione giovane ad elevata richiesta funzionale.
Prof. Biggi, quando si comincia ad avvertire che il problema è serio?
Quando le superfici articolari diventano irregolari, inizia la sintomatologia clinica, che per l’anca si manifesta con dolori, diminuzione dell’escursione articolare e difficoltà deambulatorie. Camminare diventa problematico e doloroso; piccole necessità quotidiane quali mettersi le calze o tagliarsi le unghie dei piedi possono risultare difficili o addirittura impossibili. Progredendo il quadro degenerativo compare una grave limitazione funzionale: l’arto, anche a riposo, appare atteggiato in flessione, adduzione ed extrarotazione, il dolore e la zoppia si accentuano. Il medico che durante una visita ambulatoriale riscontri dolore all’anca in un paziente, procederà con esami atti a stabilire la presenza di artrosi di una o delle due anche: alcuni esami serviranno a confermare la presenza dell’artrosi all’anca mentre altri potranno servire ad escludere altre patologie.
Quali sono gli esami che solitamente vengono prescritti?
La radiografia standard del bacino è sempre il primo esame da eseguire, con eventuali proiezioni per l’anca più interessata e/o sintomatica, dimostrando senza ombra di dubbio la presenza di una artrosi conclamata, ovvero un conflitto femoro/acetabolare (FAI). In caso di dubbio, una risonanza magnetica potrà escludere malattie secondarie e potrà mostrare la presenza di necrosi della testa femorale, lesioni osteocondrali, algodistrofie. In alcuni casi, precedenti di malattie (quali una displasia congenita dell’anca o una epifisiolisi), una frattura del bacino, o precedenti interventi (quali osteotomie) possono aver modificato l’anatomia dell’anca da operare in modo tale da rendere difficoltosa l’applicazione di una protesi “standard”: grazie alle ricostruzioni 2D e 3D della TC sarà possibile una adeguata pianificazione e la scelta delle componenti protesiche più idonee. La moderna ortopedia è in grado di fornire risposte terapeutiche adeguate, e personalizzate in rapporto a tipo di patologia, età dei pazienti, livello di performance e stadio della malattia.
Parliamo di trattamenti conservativi: oltre alla fisiokinesitreraopia, all’idrokinesiterapia e ovviamente alla terapia farmacologica, cos’altro è possibile fare?
La viscosupplementazione farmacologica riscontra buone remissioni sintomatologiche anche di lunga durata: consiste in iniezioni intra-articolari guidate(radiologia, ecografia) di acido ialuronico, costituente naturale della cartilagine, allo scopo di lubrificare meglio le superfici nelle fasi iniziali di degenerazione, favorendone anche la nutrizione. Vera novità è la cosiddetta Medicina Rigenerativa basata sull’utilizzo di cellule “simil staminali” ricavate dal sangue o dal grasso sottocutaneo del paziente, che, sempre sotto guida ecografica o radiologica, vengono infiltrate all’interno della articolazione con l’intento di favorire una neoformazione cellulare che rimpiazzi gli elementi osteo-cartilaginei degenerati e riassorbiti stimolando, naturalmente, la riparazione/ricostruzione delle lesioni, cercando di evitare, e comunque allontanare, la necessità di ricorrere alla chirurgia. Anche questa procedura, come la precedente, è eseguibile in regime ambulatoriale in anestesia locale.
Chirurgia: quando la protesi è assolutamente necessaria?
La chirurgia, in particolare quella protesica, ha avuto negli ultimi 10 anni una ulteriore evoluzione in termini di vie chirurgiche sempre meno invasive, di materiali sempre più affidabili, con procedure che consentono di evitare emotrasfusioni e favorire un recupero funzionale precoce, grazie anche al controllo del dolore post-operatorio, in un ambito di massimo rispetto delle strutture muscolo-tendinee che determinano la funzione articolare. Anche l’artroscopia si sta ricavando uno spazio, con indicazioni, però, molto più ristrette, e sicuramente non utilizzabile nella artrosi, sia essa primitiva che secondaria. Il binomio aspettative del paziente/risultato clinico è, a mio avviso, il vero problema emergente: essendosi, nel corso degli anni, notevolmente abbassata l’età media dei pazienti che richiedono, in particolare, la ricostruzione e non la sostituzione con protesi della articolazione, è di pari passo aumentata la richiesta di performance, con possibilità di eliminare dolore e limitazione funzionale, ma anche di riprendere una vita di relazione normale, professionale, ricreazionale e sportiva.
E’ sempre possibile raggiungere questi obiettivi? E’ fondamentale l’informazione che il chirurgo offre e che il paziente riceve, ma, di fatto, i limiti dipendono dalla patologia di base, dalla maggiore o minore deformazione scheletrica, dallo stato della muscolatura, dalla disponibilità verso il programma riabilitativo e, ovviamente, dalla corretta tecnica chirurgica.