Secondo la Cassazione penale le sanzioni previste dal D.Lgs. 231/2001 sono irrogabili solo in caso di “colpa di organizzazione”, cioè in presenza di un assetto organizzativo oggettivamente negligente nell’adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione dei reati.
Il caso riguarda l’infortunio mortale di un lavoratore di un cantiere temporaneo: l’operaio aveva perso l’equilibrio in prossimità di un ponteggio privo di dispositivi di sicurezza e, precipitando da un’altezza di circa dieci metri, aveva riportato gravissime lesioni che ne avevano causato la morte. Era stato anche accertato il mancato utilizzo, da parte del lavoratore, dei dispositivi di protezione individuale contro le cadute dall’alto, il mancato addestramento specifico richiesto per l’utilizzo di tali dispositivi e il mancato rispetto del prescritto PI.M.U.S. (Piano di Montaggio, Uso e Smontaggio) del ponteggio.
La ditta appaltatrice dei lavori era stata condannata, ai sensi dell’art. 25-septies, comma 3 del D.Lgs. 231/2001, alla sanzione amministrativa di € 30.000,00, per aver tratto vantaggio dal risparmio derivante dalla carente applicazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, impiegando lavoratori privi di idonei sistemi di protezione contro le cadute dall’alto, non formati e privi di un preposto che sovrintendesse alle attività.
La società ha proposto ricorso per cassazione lamentando, fra l’altro, che la sentenza non avesse dimostrato la presenza di un contesto di violazione sistematica delle norme antinfortunistiche, il quale sarebbe stato, esso sì, indicativo di una politica di illecito risparmio nell’applicazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro ma, viceversa, avesse utilizzato l’infortunio verificatosi come unica prova dell’inidoneità del modello organizzativo adottato dall’azienda.
La Quarta Sezione della Cassazione penale, con sentenza n. 570 del 11 gennaio 2023, ha accolto il ricorso affermando che: «Deve, invero, ricordarsi che la tipicità dell’illecito amministrativo imputabile all’ente costituisce, per così dire, un modo di essere “colposo”, specificamente individuato, proprio dell’organizzazione dell’ente, che abbia consentito al soggetto (persona fisica) organico all’ente di commettere il reato. In tale prospettiva, l’elemento finalistico della condotta dell’agente deve essere conseguenza non tanto di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica quanto di un preciso assetto organizzativo “negligente” dell’impresa, da intendersi in senso normativo, perché fondato sul rimprovero derivante dall’ottemperanza da parte dell’ente dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn). Ne consegue che, nell’indagine riguardante la configurabilità dell’illecito imputabile all’ente, le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell’illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal d.lgs. n. 231/01. La ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, giustifica il rimprovero e l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, oltre a sorreggere la costruzione giuridica per cui l’ente risponde dell’illecito per fatto proprio (e non per fatto altrui). Ciò rafforza l’esigenza che la menzionata colpa di organizzazione sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza del (dipendente o amministratore dell’ente) responsabile del reato».